Lunedì primo novembre. Sono le nove di sera e sono appena approdato a Cadorna, scendo dal Malpensa Express e realizzo due cose: ho fame; il frigo a casa è vuoto (ma veramente vuoto). Soluzione: un trancio di pizza da Spizzico. Entro, ordino, mi siedo.
Ci sono io, un orientale con valigia, due amiche sudamericane, un bauscia con la sua badante/amante estera non proprio bellissima. E poi tre senzatetto o, se preferite, barboni. Due sono “di casa”, hanno l’aria di chi ci viene tutte le sere. E infatti entrano con aria indifferente, vanno in bagno e si lavano. Poi si asciugano e si cambiano. Commentano alludendo alla terza. Che invece ha l’aria mogia di chi si vergogna. E’ piena di buste della spesa. E’ nuova, dicono gli altri due, ma vedrai che prima di Natale ci viene tutta Milano qua. Poi raccoglie le sue buste e se ne va, alla ricerca di un posto per la notte, immagino io.
Il tutto illuminato dalle luci finte del locale, circondati da gigantografie di famiglie con bambini, gruppi di amici che mangiano una bella pizza fumante. Realtà e finzione. Ogni tanto è bene ricordarselo e farselo ricordare.
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Prima di sbarcare a Cadorna ero in treno. E prima ancora in aereo. E prima ancora in un autobus. In tutto questo tempo, mi sono letto il breve saggio del compianto Edmondo Berselli, L’economia giusta. Nel leggere questo testo, pieno di citazioni e riferimenti a economisti, filosofi, storici, gente che insomma io ho incontrato nei miei studi, ho avuto ulteriore conferma del mio oramai grave analfabetismo intellettuale. Se voglio essere più buono con me stesso dirò: perdita di memoria.
A parte ciò, il saggio si chiude con una constatazione lucida, ovvero con una sorta di – condivisibile – profezia: dovremo abituarci all’idea di essere più poveri di quanto siamo oggi. Il nostro sistema economico sta evidentemente implodendo, non riconoscerlo è un esercizio di grettezza intellettuale. O di propaganda televisiva, fate voi.
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Giovedì quattro novembre. Finita la lezione di inglese mi avvio in metropolitana in compagnia del mio insegnante nord irlandese che, per l’ennesima volta, sto indottrinando sulle miserie politiche del nostro Paese in generale e dell’attuale maggioranza in particolare. Ci raggiunge un altro suo collega, inglese, che indovina subito: non starete parlando di Berlusconi per caso?
Dopo più di dieci anni in Italia, lui si è fatto una sua idea del nostro popolo, della nostra cultura della (il)legalità diffusa e mi dice una cosa molto semplice, paragonando l’Italia all’Inghilterra. Il concetto di società e la sua declinazione elementare: la famiglia. In Inghilterra, mi dice, la mia famiglia non è contenta se un’altra famiglia non vive bene. Perchè in quella famiglia magari mancherà l’istruzione, i figli cresceranno abbandonati a se stessi e un domani è possibile che finiscano per rubare in casa mia. Quindi la mia famiglia si impegnerà affinchè anche l’altra famiglia possa migliorare la propria condizione. Così si costruisce una società.
In Italia, viceversa, l’importante è che la mia famiglia (allargata, clientelare) stia bene. Di come sta un’altra famiglia non me ne frega un granchè. Non si può costruire una società su queste basi.
Sono d’accordo con le obiezioni, si tratta di una eccessiva semplificazione condita da pregiudizi; ma ci intravedo comunque un fondo di verità. E si rafforza la convinzione che in questo Paese non cambierà mai niente.
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Venerdì cinque novembre. La settimana è finita. Evviva.